Il femminismo a Milano Anni ‘70

di Lea Melandri

 

Seconda puntata

I primi due gruppi: Demau e Rivolta Femminile

Il mio incontro col movimento delle donne è avvenuto all’Umanitaria, nello stesso anno in cui nasceva la rivista “L’erba voglio”, nel 1971. Da quel momento ho cominciato a fare la spola tra le riunioni della redazione e quelle dei gruppi femministi che già esistevano a Milano, cercando il più possibile di tenerli insieme per i tanti temi che avevano in comune: la critica alla politica separata, alle sue astrattezze, l’attenzione alla vita personale, al corpo, alla sessualità.

Si trattava di un convegno allargato ai gruppi già presenti nella città –come il Demau, Rivolta Femminile, Anabasi, Il cerchio spezzato –exstudentesse dell’Università di Trento che abitavano in una comune in via Montello e che avrei coinvolto, l’anno dopo, nel progetto di un asilo autogestito a Quarto Oggiaro.

Avrebbe dovuto occuparsi dell’educazione dei bambini e al medesimo tempo della presa di coscienza delle donne. Un’esperienza importante che mi portò a familiarizzare con le periferie milanesi: grandi casermoni abitati per lo più da immigrati, che visitavamo andando casa per casa. Non sapevo che ci sarei tornata nel 1976 come insegnante di un corso 150 ore frequentato quasi esclusivamente da donne, casalinghe.

Il gruppo con cui si fa iniziare il femminismo milanese è il Demau, che nasce nel 1966. Le riunioni si tenevano in una casa privata in via Cappuccio. Era il primo gruppo di donne del tutto autonomo da partiti e organizzazioni politiche, e con posizioni critiche anche rispetto alle associazioni femminili che lottavano per l’emancipazione all’interno delle istituzioni. Ai suoi inizi, svolgeva essenzialmente un’attività di studio, i riferimenti erano all’antropologia e alla psicanalisi con l’intento di trovare le radici dell’oppressione femminile “non solo nell’ambito del lavoro, della politica, del sociale, ma anche e soprattutto nell’ambito della sessualità e del rapporto uomo-donna”.

Promotrice e figura di primo piano nell’elaborazione teorica del Manifesto programmatico del Demau è Daniela Pellegrini, che ritroveremo sulla scena milanese quando nel 1981 apre, insieme a Nadia Riva, il locale “Cicip & Ciciap”, in via Gorani 9. Al gruppo partecipano da principio anche alcuni uomini, tra cui lo psicanalista Elvio Fachinelli, partendo dalla considerazione che il disadattamento ai ruoli sessuali riguardava uomini e donne, così come doveva essere considerata responsabilità comune la crescita dei figli. Interessante è soprattutto la critica che viene fatta all’ “integrazione” della donna nel mondo del lavoro, dal momento che avveniva senza mettere in discussione l’ordine esistente, e costringendo perciò la donna a sostenere il peso di un doppio lavoro, in casa e fuori.

La svolta verso quella che sarà la pratica più originale e radicale del femminismo milanese– cioè l’autocoscienza- avverrà, anche per il Demau, qualche anno dopo per influenza del movimento americano, e soprattutto per l’apporto teorico di Carla Lonzi e di Rivolta Femminile. Nel 1963 era uscito negli Stati Uniti il libro di Betty Friedan, La mistica della femminilità, che criticava l’immagine pubblicitaria della donna di casa felice. Nel ’68 c’erano state manifestazioni contro il concorso di “Miss America”. Si scopriva la natura politica di tutto ciò che era stato considerato fino ad allora “il privato”, la “vita intima”. Sarà Serena Castaldi e il gruppo “Anabasi” a portare in Italia l’esperienza americana.


Carla Lonzi e Rivolta Femminile

Il Manifesto di Rivolta Femminile, firmato da Carla Lonzi, Carla Accardi, Elvira Banotti, era uscito a Roma nel 1970. Nel settembre Lonzi si trasferisce a Milano e fonda un gruppo – Rivolta Femminile- che, insieme ad Anabasi, è il primo formato da sole donne. L’esclusione dell’uomo, di cui allora si discusse molto, è messa in relazione con la pratica dell’autocoscienza, intesa da Rivolta come “scoperta di sé”, di un sé “autentico”, fuori dall’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna. Responsabili di aver considerato la donna un completamento dell’uomo per giustificare il potere maschile sono, per Carla Lonzi, i “sistematici” del pensiero.

Uno dei suoi scritti porta come titolo Sputiamo su Hegel (1970), ma il riferimento è anche a Marx e Freud. Ai “miti della femminilità” costruiti dall’uomo la donna avrebbe finora contrapposto solo la sua dimensione esistenziale, la sua energia, il suo coraggio, la sua dedizione. Anziché chiedere l’uguaglianza, che è quanto si offre ai colonizzati sul piano della legge e dei diritti, la donna dovrebbe “approfittare della sua differenza” - assenza dalla Storia e dai suoi disastri, capacità di conservazione della vita- per operare un mutamento globale della civiltà. La donna è dunque il “Soggetto imprevisto” col quale il mondo, segnato dalla violenza del patriarcato, dovrebbe riprendere ilo cammino.

Nel 1971 escono, nella collana dei “Libretti verdi” di Rivolta, altri due scritti destinati per la loro forza provocatoria a diventare un riferimento essenziale del neofemminismo: Sessualità femminile e aborto, firmato dal gruppo, e uno di Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale. Il “partire da sé”, su cui si basa la pratica dell’autocoscienza, portava al centro della politica un tema che è stato confinato nel privato, nella vita intima: la sessualità femminile identificata con la maternità e di conseguenza cancellata nella sua specificità. La donna ha un suo “fisiologico centro del piacere”, che è la clitoride, un organo sessuale distinto dalla procreazione. Se la vagina è diventata il sesso della donna è solo perché l’uomo ha imposto il suo piacere, penetrativo e generativo. Il coito obbedisce al mito della virilità e la donna vi consentirebbe per effetto della “omertà” che è propria del colonizzato. La donna clitoridea, al contrario, è quella che rivendica le proprie esigenze di individuo, che rifiuta la passività e l’identificazione con l’uomo.

Una posizione provocatoria, liberatrice, che portava a interpretare diversamente la frigidità, vissuta fino ad allora da molte come patologia, disagio personale, e a separare la donna dalla madre.

(…)Ciò che rende così conflittuale il rapporto uomo donna –dice Carla Lonzi- è la differenza della loro culture e sensibilità. L’uomo ha a disposizione il mondo, il suo centro vitale, attivo è il lavoro. La donna, anche se colta, impegnata professionalmente, diventa solo il suo completamento: da lei l’uomo si aspetta che lo sostenga affettivamente e intellettualmente, lo accompagni e lo incoraggi nei suoi impegni pubblici. Il “privilegio” è per l’uomo aver incentrato tutta la sua vita in una produttività sociale e aver subordinato a questa priorità ogni altro rapporto, a partire da quello con la donna e con tutto ciò che attiene alla relazione personale. Da lui ci si aspetterebbe che portasse almeno testimonianza di questa “cultura”della vita che le viene rivelata dalla donna nel privato.

Pensandoci oggi mi rendo conto che non era possibile portare alla coscienza la sessualità cancellata della donna senza svincolarla, nell’immediato, dalla maternità e dal sogno d’amore, inteso come fusione due esseri in uno, per i quali la donna spesso ha rinunciato a un piacere proprio.

A Lonzi va anche il merito di aver dato al “partire da sé” la valenza di pratica politica. E’ già politica è il titolo di uno dei suoi libretti, corrispondente allo slogan “il personale è politico”, l’intuizione con cui si annuncia la svolta del neofemminismo rispetto alle battaglie per l’emancipazione che l’avevano preceduto.

 

17-11-2015

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